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Fondo Vittorio Vialli
Consistenza e tipologia del fondo - Il fondo comprende 329 fotografie, 18 tra stampe tipografiche ed articoli di giornale e 34 negativi di fotografie appartenenti al fondo stesso.
Provenienza – Il fondo proviene dalla famiglia di Vittorio Vialli che nel 2001 lo ha depositato presso l'allora Istituto regionale Ferruccio Parri per la storia del movimento di liberazione e dell'età contemporanea in Emilia-Romagna con sede a Bologna. L'Istituto, attualmente denominato Istituto per la storia e le memorie del ‘900 Parri Emilia-Romagna, provvede alla conservazione ed alla valorizzazione dei documenti affidati e ne garantisce la fruizione da parte del pubblico interessato, come testimoniano le numerose richieste a cui ha dato seguito nel corso degli anni. La stessa digitalizzazione e pubblicazione recentemente portata a termine intendono garantirne una più ampia diffusione e valorizzazione.
Estremi cronologici - Gli estremi cronologici delle vicende documentate nel fondo partono dal giugno 1943 (una sola fotografia che testimonia dei buoni rapporti esistenti con i tedeschi prima dell'8 settembre) fino all'agosto 1945 quando, dopo la liberazione da parte degli alleati inglesi, terminano le operazioni di rientro in Italia dei prigionieri italiani commilitoni di Vittorio Vialli.
Argomento - La vicenda rappresentata ha inizio ad Istmia con la foto di alcuni ufficiali italiani assieme ad ufficiali tedeschi invitati a pranzo in occasione della giornata della Marina militare italiana. L'autore ci tiene a mettere in evidenza che gli ufficiali sono gli stessi che faranno prigionieri gli ufficiali italiani dopo l'8 settembre. Ha così inizio la incredibile e lunga avventura di militari italiani convinti di fare ritorno in patria, deportati invece nei campi di concentramento in Germania ed in Polonia e sottoposti ad un duro regime di internamento. I soldati e gli ufficiali del dissolto esercito italiano non furono riconosciuti quali prigionieri di guerra, ma soltanto come Imi (Internati militari italiani), e per questo sottratti al regime di tutele della convenzione di Ginevra, sottoposti a pesanti pressioni, atti repressivi e lavoro coatto.
Sarà la inseparabile macchina fotografica di Vittorio Vialli, salvata con mille astuzie e complicità di amici dalle periodiche perquisizioni tedesche, a raccontare e testimoniare i fatti più significativi, ma anche la routine quotidiana alla quale si cerca di sfuggire organizzando conferenze, lezioni, contatti con altri prigionieri.
Hanno scritto i figli, Silvana e Bruno Vialli:
«Vialli ama la fotografia, per cui ha sempre con sé la sua Zeiss Super Ikonta con la quale aveva già documentato la quotidianità della guerra in Grecia e in Albania. Per lui fotografare non è soltanto un hobby, ma uno strumento abituale per il suo lavoro scientifico. Egli sviluppa e stampa da sé per scegliere le sue inquadrature con un taglio personale. È quindi abituato a scrivere attraverso immagini senza bisogno di ricorrere a tante parole».
(…)
«Ed è stata questa piccola macchina a fargli scattare il desiderio irresistibile di beffare i tedeschi a rischio della propria vita e a dargli la forza di resistere per poter poi raccontare in un diario visivo, completo e per questo eccezionale, la sua verità, dal giorno della cattura a quello della liberazione, avvenuta nell'aprile 1945. Con la macchina nascosta dentro al cappotto o nelle mutande, insieme a un pugno di rullini, smontata e rimontata, finita in un'autoclave per ben due volte, avvolta in stracci, ma sempre riemersa ancora funzionante, Vialli fotografa la vita quotidiana del campo, i suoi carcerieri, il fotografo tedesco che immortala gli internati, gli appelli al gelo, le conferenze, le messe, le lezioni universitarie organizzate dagli ufficiali nelle baracche, le sequenze di un assassinio perpetrato a sangue freddo da una sentinella tedesca, il comandante del lagher, la radio clandestina».
(…)
«Il 16 aprile Vialli esce dal campo, fotografa l'avanzata dei carri armati inglesi: l'unica fotografia che risulterà mossa per l'emozione. Documenta i 2.500 morti del cimitero italiano di Fallingbostel, si reca a Bergen Belsen, situato a pochi chilometri di distanza, vede i forni crematori, le fosse comuni. Non ha più il coraggio di scattare, l'unica immagine è quella di una tomba di una quindicenne ebrea italiana che non ce l'ha fatta a sopravvivere alla soluzione finale».
Le fotografie colgono con estrema perizia lo stato d'animo del militare «in perenne attesa non si sa di che», il momento di generosità di un civile nei confronti dei prigionieri affamati, ma anche momenti più corali come le cerimonie religiose frequentate da masse di prigionieri, lo spettacolo organizzato sulle rive del cosiddetto "laghetto", il coro del Nabucco, l'attesa dietro i reticolati dell'arrivo dei liberatori, l'alzabandiera dopo la liberazione con una bandiera da qualcuno miracolosamente salvata.
Sorprende la precisione tecnica di fotografie scattate sempre in precarie condizioni, di nascosto dai sorveglianti tedeschi, ma si deve tenere presente che al momento della cattura l'autore svolge la funzione di geologo del canale di Corinto per conto della Marina Militare Italiana, dunque la fotografia fa parte del suo abituale lavoro scientifico.
Un cenno particolare merita la "Caterina", la radio ingegnosamente costruita con attrezzature rudimentali, a cui ha contribuito pure la bicicletta di un sorvegliante tedesco, fornendo una preziosa dinamo. Come la macchina fotografica fortunosamente sottratta alla sorveglianza dei carcerieri con la complicità perfino del cappellano militare, rivela notizie importanti e viene usata liberamente quando nel campo scoppia una epidemia di tifo petecchiale che tiene lontano i sorveglianti.
Nel 1975, su consiglio della moglie Liana e dei figli Silvana e Bruno, Vittorio Vialli si convince a pubblicare il materiale raccolto in un libro che intitolerà Ho scelto la prigionia ed avrà la prefazione di Sandro Pertini. Un secondo libro più recente Storia fotografica della prigionia dei militari italiani in Germania, a cura di Adolfo Mignemi riporta, insieme a fotografie di altri autori, gran parte delle istantanee di Vittorio Vialli.
Copia delle immagini del Fondo Vittorio Vialli è stata depositata dai figli nella Niedersächsiche Landeszentrale für politische Bildung (Nlpb) di Hannover, presso il Bergen-Belsen Memorial, su richiesta e di concerto con lo Stato della Bassa Sassonia (Niedersachsen) e la Repubblica Federale Tedesca
a cura dei figli Silvana e Bruno Vialli
Vittorio Vialli nasce a Cles (Trento) il 1° febbraio 1914. Nel 1937 si laurea a Pavia in Scienze Naturali con una tesi sulle amate marmotte del monte Peller, e in seguito lavora come Conservatore al Museo Civico di Storia Naturale di Milano dove ritorna dopo la guerra e ne diventa vicedirettore nel 1957. Nel 1961 vince la neocattedra di Geologia e Paleontologia dell'Università di Bologna dove coprirà la carica di direttore di Istituto (1970/80) e anche di direttore del Museo di Paleontologia Capellini. La sua scomparsa avviene a Bologna il 5 febbraio 1983.
Nel 1941, richiamato alle armi, è inviato al fronte greco-albanese con il grado di tenente. Nel maggio 1941 sposa per procura la giovanissima Liana, che sarà la compagna della sua vita e che lo spingerà nel 1975, assieme ai figli Silvana e Bruno, a pubblicare il primo libro "Ho scelto la prigionia" contenente una parte delle foto scattate durante la prigionia. (Liana lo aiuterà soprattutto nel difficile e doloroso lavoro di cernita, stampa e ricostruzione delle didascalie in rigoroso ordine cronologico).
L'8 settembre 1943, mentre si trova a Istmia per svolgere la funzione di geologo del canale di Corinto per conto della Marina Militare Italiana, viene catturato dai tedeschi e deportato, dopo un penoso viaggio in carro bestiame durato 30 giorni, in vari campi di concentramento in Germania e in Polonia.
Da quel momento a Vialli viene posta una scelta: aderire con una semplice firma alla Repubblica fascista di Salò, e quindi essere rimandato immediatamente in Italia, a combattere gli alleati a fianco dei nazisti, oppure rimanere prigioniero del nemico. Sceglie la seconda ipotesi, come del resto altri circa 650.000 soldati italiani.
Vialli ama la fotografia, per cui ha sempre con sé la sua Zeiss Super Ikonta con la quale aveva già documentato la quotidianità della guerra in Grecia e in Albania. Per lui fotografare non è soltanto un hobby, ma uno strumento abituale per il suo lavoro scientifico. Egli sviluppa e stampa da sé per scegliere le sue inquadrature con un taglio personale. È quindi abituato a scrivere attraverso immagini senza bisogno di ricorrere a tante parole.
E anche in questa drammatica occasione riesce a portare la macchina con sé, riuscendo fortunosamente e inconsciamente a nasconderla durante le numerose persecuzioni. In seguito consegnerà la Zeiss, troppo ingombrante, a un militare tedesco della Wermacht che gliela ridarà alla fine della guerra. Vialli d'ora in poi userà un piccola Leika, molto più maneggevole, datagli dal suo fedele amico e complice Vittorio Pacassoni.
Ed è stata questa piccola macchina fargli scattare il desiderio irresistibile di beffare i tedeschi a rischio della propria vita e a dargli la forza di resistere per poter poi raccontare in un diario visivo composto da circa 400 foto, completo, e per questo eccezionale, la sua verità, dal giorno della cattura a quello della liberazione, avvenuta nell'aprile 1945.
Con la macchina nascosta dentro al cappotto o nelle mutande, insieme a un pugno di rullini, smontata e rimontata, finita in un'autoclave per ben due volte, avvolta in stracci, ma sempre riemersa ancora funzionante, Vialli fotografa la vita quotidiana del campo, i suoi carcerieri, il fotografo tedesco che immortala gli internati, gli appelli al gelo, le conferenze, le messe, le lezioni universitarie organizzate dagli ufficiali nelle baracche, le sequenze di un assassinio perpetrato a sangue freddo da una sentinella tedesca, il comandante del lagher, la radio clandestina.
All'inizio del 1945 gli italiani internati rifiutano anche il lavoro agricolo proposto: i tedeschi rispondono riducendo le razioni di cibo agli ufficiali. Avanza la tubercolosi e gli edemi da fame. Il 5 aprile arriva l'ordine di trasferimento solo bagaglio a spalla. Due le destinazioni possibili: Buchenwald o Bergen Belsen, ambedue campi di sterminio. Il trasferimento non avverrà: una divisione corazzata inglese è alle porte di Hannover.
Il 16 aprile Vialli esce dal campo, fotografa l'avanzata dei carri armati inglesi: l'unica fotografia che risulterà mossa per l'emozione. Documenta i 2.500 morti del cimitero italiano di Fallingbostel, si reca a Bergen Belsen, situato a pochi chilometri di distanza, vede i forni crematori, le fosse comuni. Non ha più il coraggio di scattare, l'unica immagine è quella di una tomba di una quindicenne ebrea italiana che non ce l'ha fatta a sopravvivere alla soluzione finale.
Affermerà poi, citando lo sterminio degli ebrei e degli zingari e di innumerevoli altri innocenti, ricordando i 67.000 prigionieri italiani in Unione Sovietica, dei quali sono ritornati solo 11.000, le detenzioni in Africa, in India: ...Questo, e ovviamente non solo questo, ha inevitabilmente ridimensionato nel cuore degli ex I.M.I. le prime valutazioni fatte della propria vicenda...ce ne sono state di ben più tragiche, purtroppo. Ma pur non essendo stata la più dura, essa rimane non di meno un capitolo molto triste da iscrivere nella storia contemporanea. Una vicenda da non dimenticare non per sollecitare o rinfocolare l'odio, sia chiaro, ma per fare umanamente comprendere, a chi dall'esperienza altrui vuole imparare qualcosa, i guai che possono nascere dall'intolleranza, dal fanatismo e dalla smodata demagogia. Speriamo bene.
Modeste parole non dissimili a quelle che Giorgio Perlasca pronunciò a commento della sua incredibile vicenda. E anche la storia di Vialli, come quella di Perlasca, fu ignorata per tanti anni, come del resto successe anche a quella di Alessandro Natta, catturato a Cefalonia e prigioniero anche lui a Sandbostel. Natta solo negli anni ‘80 riuscì a pubblicare il suo bellissimo libro sullo stesso argomento: L'altra resistenza. Il giornalista Enrico Deaglio, in un articolo su Repubblica commenta: ...quante storie si possono ancora raccontare; quanto poco sappiamo della nostra storia, di quella che hanno vissuto i nostri genitori e i nostri nonni. È veramente uno strano luogo l'Italia, sospesa in una memoria non memoria.
Noi figli, incontrando negli anni dopo la sua scomparsa, colleghi e soprattutto ex studenti di nostro padre, abbiamo con gioia imparato a conoscerlo ancora più a fondo attraverso i loro ricordi.
La sua attività presentava essenzialmente tre aspetti strettamente legati tra loro: uno museologico, iniziato a Milano con la ricostruzione del Museo Civico, completamente bombardato durante la guerra, e continuato a Bologna, uno di ricerca scientifica pura che lo ha sempre appassionato, e uno di carattere puramente didattico. ...Vialli, fino a che lo hanno sorretto le forze, ha sempre insegnato con piacere, con impegno e con passione. Aveva facilità di parola, proprietà di linguaggio. Come nello scrivere era estremamente chiaro nell'esporre, in questo aiutato dalla sua particolare capacità di disegnare. Era capace di trovare frasi semplici ed efficaci ed esempi e paragoni a volta divertenti, sì da rendere con immediatezza comprensibili i concetti. Ne nasceva, nel corso dell'esposizione, un equilibrio tra il momento di concentrazione e di massimo impegno per l'uditorio e il momento di rilassamento mentale, con il risultato di non rendere mai "pesante" la lezione e quindi sempre "digeribili" gli argomenti. Tutto ciò era facilitato dal suo atteggiamento, mai imperioso, ma bensì cordiale, sorridente. Vialli conosceva l'arte dell'insegnare, era istintivamente un attore nel momento della lezione. C'è un rapporto tra l'attività didattica e quella museologica di Vialli. In entrambi i casi c'era il gusto di far apprendere, c'era il desiderio di porgere agli altri le proprie conoscenze, c'era lo sforzo di divulgare la scienza. Ecco perché Vialli era perfettamente consapevole che l'insegnare ha come finalità prima non tanto la verifica delle conoscenze da parte del docente, quanto l'apprendimento da parte dello studente. Il comportamento di Vialli didatta era tale quindi da creare un felice rapporto con gli studenti; rapporto che impegnava fra l'altro gli allievi (almeno i più sensibili) a non deludere negli studi il professore; rapporto felice dovuto anche al fatto che Vialli, come tutte le persone ricche di umanità, aveva simpatia per i giovani e quindi per gli studenti... (Samuele Sartoni, Ricordo di Vittorio Vialli, 1983)
Ricordiamo con tenerezza che lui, da buon naturalista molto amante degli animali, portava spesso a lezione e anche agli esami la sua amatissima Alice, bassottina nero focata che serviva a creare un'atmosfera rilassata e familiare.
Un'altra testimonianza di un ex studente ora professore: ...Credo che tutti coloro che hanno vissuto, studiato e lavorato nell'Istituto di Geologia e Paleontologia di Bologna dal 1970 al 1980 debbano molto, ma veramente molto a Vialli Direttore: per aver lasciato esprimere a ognuno le sue idee e le sue potenzialità di ricercatore, per non aver formato un suo clan, per non aver incoraggiato, anzi appianato dispute e contese personali e di gruppi, per non aver mai umiliato la dignità di qualcuno, dal collega al bidello, per aver sempre lasciato un dialogo aperto con gli studenti... Se qui rimpiango per primo l'uomo è per sottolineare da allievo di fronte a parenti, amici e colleghi più anziani, la più vera lezione che sento di aver ricevuto sul piano dell'etica professionale e dell'etica senza aggettivi... (Franco Ricci Lucchi, settembre 1983)
E per concludere citiamo un'altra frase che un suo collega alla sua scomparsa scrisse:
...E per comprendere di più Vittorio Vialli è necessario rispondere a una domanda: perché ha scelto la prigionia? Perché coscientemente ha scelto la fame, gli stenti, il freddo, le malattie, il pericolo di morte? Perché ha accettato di subire i soprusi, le prepotenze, le angherie. Perché continuare a resistere pur di fronte alla morte dei cari compagni di prigionia, stroncati da quella vita infernale? È lo stesso Vialli che risponde a questi interrogativi.
Egli ci ha lasciato scritto: "è una questione di dignità umana". Forse questo è uno degli aspetti meno intuiti della personalitè di Vialli; probabilmente perché nascosto dal suo sorriso e dal suo comportamento cordiale; probabilmente perché, secondo un comune cliché, il "dignitoso" si sposa solo con il "serioso". In Vialli invece il senso della dignità era fortissimo ed egli lo ha largamente dimostrato. E guai a toccarlo nella sua dignità; in tal caso chi non aveva capito il suo temperamento si trovava inaspettatamente di fronte a una persona rigida, non conciliante, talvolta aggressiva. Non si doveva mai interpretare la sua disponibilità verso il prossimo come rinunciataria accondiscendenza.
Questa umana dignità di cui Vialli parla è la chiave che ci permette di conoscere gran parte della sua personalità. Dignità umana è rispetto verso se stessi; da qui discende, per coerenza, quel rispetto verso il prossimo che portava Vialli a vestirsi nei panni del prossimo stesso, a viverne sentimenti e situazioni e quindi a essere comprensivo e generoso, oltre che corretto e leale. Io non ricordo, in più di vent'anni passati accanto a lui un episodio, un momento di prevaricazione o di prepotenza verso il prossimo. E ciò è, fra tutte, la cosa più importante... (Samuele Sartoni, Ricordo di Vittorio Vialli, maggio 1983)
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