La Spagna cinquant'anni dopo
Discorso pronunciato a Bologna dall'amico Giorgio Braccialarghe, in occazione della inaugurazione della mostra: "La repubblica spagnola nei documenti enella filatelia", patrocinata dalla RegioneEmilia-Romagna, dalla Provincia e dal Comune di Bologna, con la promozione del Comitato: AICVAS - ANPI - ANPPIA - Istituto Storico della Resistenza - Centro Italiano Filatelico della Resistenza - Circolo filatelico ATC "G. Dozza" - Postelegrafonici - Ferrovieri.
Voglio sperare che nell'inoltrarmi l'invito a presenziare a questa Mostra, il cui tema è: "La repubblica spagnola nei documenti e nella filatelia", non si sia accarezzato l'idea di un mio contributo alla illustrazione del mondo filatelico spagnolo, da me ignorato completamente. L'unico rapporto avuto con i francobolli è cessato, ahimè!, dall'epoca della mia prima giovinezza, quando ero riuscito a mettere insieme una collezione, abbastanza ricca, che mi fu sottratta - eufemismo per non usare il participio passato del verbo rubare - proprio da uno di quegli istitutori, incaricati di fare di me un onesto cittadino.
Ed anche sui documenti potrei dilungarmi poco, a meno che gli amici non mi abbiano ritenuto e non mi ritengono, se è lecito esprimersi così, un documento vivente della tragedia scoppiata, cinquanta anni or sono, in un giorno come questo, a causa della slealtà di un gruppo di generali autocollocatosi al di sopra delle leggi ed arbitrariamente convinti di avere il diritto di imporre la propria volontà alla nazione.
Era una ribellione venuta da lontano ed alimentata dall'odio verso le istituzioni repubblicane che il popolo si era dato, liberamente, un lustro prima e, più, dal vedersi sfuggire quei privilegi di casta garantiti dal sistema feudale, ostinatamente tenuto in vita, nonostante le profonde trasformazioni verificatesi al di là dei Pirenei e al di là dell'Atlantico.
Con la caduta della monarchia, la nuova classe dirigente aveva cominciato a por mano alle riforme imposte dai tempi, mentre nelle campagne, nelle città l'aspirazione alla libertà e ad una giustizia sociale, seriamente intesa, turbava i sonni dei latifondisti e dei padroni del vapore. Nelle alte gerarchie ecclesiastiche e militari, nell'alta finanza dominata, per lo più, dai monopoli internazionali, si univano in un unico incubo, il passo cadenzato delle epiche colonne dei sanculotti, iniziatori da Walmy, della "novella storia" e quello delle milizie popolari, rimbombante nelle strade e nelle piazze, durante l'ottobre rosso del 1917.
Già quattro anni prima il generale Sanjurjo si era avventurato in un tentativo insurrezionale, fallito miseramente; già, il governo di Lerroux, con le spietate repressioni dei moti delle Asturie, aveva cercato di spezzare le reni alle organizzazioni politiche, sindacali di sinistra, ottenendone, al contrario, il rafforzamento che aveva portato al trionfo del Fronte Popolare.
Se la destra voleva evitare di essere superata ed accantonata, dalla incombente società industriale, nella quale si sentiva un corpo estraneo, doveva fermare le lancette della storia.
Compito agevole poiché il fascismo italiano, ubriacato dall'avventura abissina ed ancora in cerca di facile gloria, il nazismo tedesco, ansioso di procurarsi un docile alleato e cospicui affari, avrebbero dato il loro appoggio, mentre le democrazie, irreflessivamente panciafichiste si sarebbero comportate come la folla facente ala al passaggio del Cristo, condotto al Golgota.
Ancor più agevole doveva sembrare il compito ai generali spagnoli. Essi, quando non disprezzavano il proprio popolo, non lo comprendevano. Abituati ai "quartelazos", "golpes", "intentonas" consideravano i civili comparse destinate ad apparire in scena, in un secondo tempo, per applaudire i vincitori, quali fossero i motivi che li avevano spinti all'azione.
Ma quei civili così mal giudicati erano gli eredi di coloro che avevano fatto correre le armate napoleoniche, pur essendo armati di forconi e falci; erano i raccoglitori del testimone passato, attraverso il fluire delle generazioni, nelle mani di ogni idealista, per il quale la vita valeva assai meno di una stilla di giustizia.
Se a Sparta non si volevano mura, perché il petto degli spartani era sufficiente difesa della città, a Madrid, Barcellona, Valencia non si temeva la mancanza di armi: sarebbero state strappate ai ribelli, per dimostrare loro che quando un popolo lotta per la libertà non v'è ostacolo, non vi sono difficoltà a fermarlo. Nemmeno la morte giacchè, incitato dalla mobilità della causa, il popolo accetta la morte quale pegno di resurrezione. Sono trascorsi cinquant'anni, ma il ricordo è più vivido che mai. Vi sono date che si scolpiscono nella storia e mantengono la chiarezza dei caratteri per l'eternità.
Possono consumarsi i secoli e Leonida, con i suoi trecento, resterà a simbolizzare l'insorpassabile baluardo opposto dalla civiltà alla barbarie; Stalingrado continuerà ad essere la diga contro la quale la melmosa fiumara nazista è costretta ad arrestarsi e a rifluire. Così Madrid; la Madrid del 1936, eroica capitale della libertà, passione egualmente sentita dagli intellettuali e dalla semplice gente di tutti i continenti, quale sacrosanta rivendicazione dei diritti del mondo del lavoro.
I giovani non lo sanno. I meno giovani, se l'hanno saputo, commettono la imprudenza di dimenticare che cosa fosse vivere alla mercè dei beoti adoratori della forza che, dopo essersi impossessati dello Stato, ne avevano proclamata la divinità, declassando i cittadini a sudditi per i quali tutto ciò che non era proibito era obbligatorio.
Occorreva fare un salto di centinaia per ritrovare un simile Stato Moloc nelle cui fauci, se non la vita, veniva stritolata la dignità umana.
Quante anime nobili conobbero la galera, il confino o, perduti Patria, familiari, amici, dovettero prendere la via dell'esilio, per rendere testimonianza del primato civile e morale sulla forza bruta, convinti che l'alba di redenzione non dovesse tardare.
"Il sole dell'avvenire", di garibaldiniana memoria, non poteva essere soltanto un'immagine letteraria: prima o dopo esso sarebbe sorto, perché non vi è notte, per quanto fonda, che seguiti a partorire incubi all'infinito.
Finalmente giunse il gran giorno: 19 luglio 1936. Dalle trincee della Casa di Campo agli uliveti della Alcarria dalle pietraie della Aragona alle montagne dell'Euzkadi si elevò un solo grido, animato da un unico proposito: "Non passeranno!"
Un grido che rintronò in tutto il mondo e fu diana chiamante a raccolta, alla quale, tra gli altri, obbedirono migliaia di antifascisti italiani. Quelli della formazione di Carlo Rosselli, comandata dal repubblicano Mario Angeloni, quelli del battaglione Garibaldi, comandato dal repubblicano Randolfo Pacciardi, affiancato dallo eroico e generoso Commissario politico comunista Antonio Roasio e composta da combattenti che possedevano purissima fede e decisa volontà di arginare la sovversione di valori senza i quali la società civile si trasforma nel regno della jungla.
Ancor oggi leggo o ascolto nelle celebrazioni di parte, di quell'avvenimento, la condanna di eccessi a noi attribuiti, con una disinvoltura degna di facce di bronzo.
Che eccessi ci siano stati, chi oserebbe negarlo? La guerra civile è la peggiore di tutte le calamità belliche e chi ne porta la responsabilità dello scoppio, non ha il diritto di lamentarne le conseguenze.
Quando si priva il governo legittimo di ogni strumento per esercitare il potere, quando si ha l'impudenza di proclamare una crociata in prò del cattolicesimo, servendosi delle orde mussulmane alle quali si consegna la patria da martirizzare saccheggiare si dovrebbe avere anche il pudore di tacere, se l'orgoglio impedisce di recitare il "mea culpa".
Comunque, da vecchio garibaldino, presente su tutti i fronti, con alte mansioni di responsabilità, comando e controllo ripeto, davanti a Dio e agli uomini, che il nostro battaglione non ha mai, dico: mai umiliato i principi ideali che ne costituivano il prezioso patrimonio. Non vi era odio, in noi; non avevamo vendette da far valere, ma un grande amore per l'umanità, per cui quelli dell'altra parte della trincea erano fratelli traviati da redimere affinchè ci aiutassero nella costruzione di un mondo migliore.
A Guadalajara, ho visto il Garibaldi saltare il pasto serale, per permettere ai prigionieri, tutti italiani, di rifocillarsi. Non dimenticherò mai un giovane fascista siciliano, evidentemente terrorizzato dalle fandonie che gli avevano raccontato di noi, chiedermi insistentemente di essere fucilato al che, perduta la pazienza ribattei: "Noi garibaldini non fuciliamo nessuno. Potrò fare un'eccezione, se scrivendo a tua madre, le chiederai di autorizzarmi". Scoppiò in un pianto liberatorio per lui e per me, in quanto, in quel momento, sentii tutto il bene che gli italiani possono fare ed ottenere, allorchè riescono a superare le divisioni di parte per trovarsi fratelli.
La nostra fu vera epopea, perché fummo costretti a spogliarci di ogni residuo di personalismo calcolatore, di egoistica mediocrità, in pro' di una nobile causa, così, come le matrone antiche sacrificavano, sull'ara degli dei, gli ori e i gioielli per impetrarne i favori.
Altri anni dovevano scorrere prima che il fascismo, seriamente colpito a Guadalajara, venisse spazzato via dalle forze congiunte delle nazioni, democratiche, ma un faro di luce vivissima si era acceso a fugare le tenebre del totalitarismo.
La luce di quel faro, Madrid, città martire, Madrid, città simbolo, illuminò anche la lotta dei nostri partigiani e illumina, tutt'ora, il ammino della ritrovata democrazia, di cui potremo andare orgogliosi appieno, quando non ci limiteremo a commemorare una data, ma nel segno di tutti i nostri fratelli caduti in Spagna e dimenticati in Italia, ci impegneremo a far nostra la promessa del poeta spagnolo: "Manana seremos mejores!", domani saremo migliori!
L'Italia del popolo, a. VI, n. 26, 20 luglio 1986, p. 6.
LA SPAGNA DI GIORGIO BRACCIALARGHE: MEMORIALISTICA E LETTERATURA
Verso la metà degli anni Settanta il suggestivo titolo di un libro su una bancarella, Nelle spire di Urlavento, attirò la mia attenzione; mi bastò scorrerne alcune pagine, dopo aver letto il sottotitolo Il confino di Ventotene negli anni dell'agonia del fascismo, per avere la certezza che l'autore, Giorgio Braccialarghe, fosse il garibaldino di Spagna e non un omonimo; i Fratelli Frilli di Genova - con rara sensibilità editoriale - lo hanno ristampato nel 2005, con una eccellente prefazione di Renzo Ronconi e un'appendice di documenti.
Nato a Pallanza nel 1911 e morto a Roma nel 1993 Giorgio Braccialarghe ebbe in sorte un padre romanzesco che con l'esempio lo educò ad una avventurosa vita politica. Fermato e picchiato dalla polizia per aver deposto garofani rossi sulla tomba di Errico Malatesta, nel 1934 - per scongiurare ulteriori guai - fu mandato dal fratello maggiore a Buenos Aires a lavorare nel quotidiano diretto dal padre in questa città. Attratto dal canto irresistibile delle sirene della rivoluzione il 7 novembre 1936 si imbarcò per Le Havre e un paio di settimane dopo era già immerso nel crogiolo di Barcellona. Scontento della gestione anarchica della guerra di lì a poco si aggregò a un gruppo di volontari italiani diretti a Madrid e combattè con il battaglione - poi brigata - Garibaldi fino all'agosto del 1937, quando ricopriva l'incarico di capo di stato maggiore della brigata comandata dal repubblicano Randolfo Pacciardi, di cui seguitò ad essere amico anche nel secondo dopoguerra . Rientrò in Francia per restarvi fino all'aprile 1938, poi andò a Buenos Aires per tornare nuovamente in Francia nel maggio dell'anno seguente. La sterile attività politica che stava svolgendo con altri reduci della brigata fu interrotta nell'agosto dello stesso anno da un arresto per possesso di documenti falsi; condannato a un anno di reclusione, quindi avviato al campo di concentramento del Vernet, alla fine del 1940 riguadagnò l'Italia dove lo aspettava il confino a Ventotene, con il lavoro politico guidato da Altiero Spinelli che diede vita al famoso Manifesto federalista. La Resistenza, cui prese parte operativamente, fu seguita da un breve periodo di azione politica svolta per il Partito repubblicano italiano, prima di "essere costretto" - sono parole sue - "ad accettare l'offerta diplomatica" del suo Partito, che l'avrebbe costretto in quel modo a cessare di "pestare i piedi a destra e a manca" e che si tradusse in modesti incarichi di console in America Latina. Idealista, disinteressato e alieno dai compromessi continuò a lavorare per il Movimento federalista europeo fino alla sua morte improvvisa e ignorata dai mezzi di informazione.
Conoscevo Braccialarghe solo di fama e dopo la lettura di Urlavento gli scrissi al suo recapito di Roma - che trovai nella guida telefonica - per domandargli se avesse pubblicato testi autobiografici sulle sue vicende di Spagna; mi rispose che si occupava periodicamente dell'argomento dal lontano 1937 in articoli di giornale dei quali non conservava copia, ma che stava scrivendo un Diario spagnolo e mi avrebbe tenuto aggiornato sugli sviluppi del suo lavoro. In realtà fece di più: dopo alcuni mesi mi mandò il dattiloscritto invitandomi a commentarlo senza remore. Le mie furono osservazioni di poco conto, in primo luogo perché m'interessavo della guerra civile soltanto da aficionado, poi per la soggezione che mi incutevano gli oltre trent'anni di differenza d'età.
All'inizio del 1977 ricevetti una nuova stesura assai più ampia della precedente e nello stesso anno Randolfo Pacciardi anticipava su «Nuova Repubblica» "la prefazione a un libro in corso di pubblicazione di Giorgio Braccialarghe: Diario". Pacciardi peccava di ottimismo, poiché un paio di mesi prima l'autore mi aveva scritto: "Il problema è trovare l'editore. Sia Rizzoli che Laterza mi hanno restituito il dattiloscritto perché, a detta loro, non hanno collane in cui inserirlo".
Nella primavera del 1982 il Diario spagnolo di Braccialarghe vide la luce - per iniziativa di un amico, imprenditore della stampa - in occasione della mostra sugli antifascisti italiani in Spagna, organizzata a Roma dalla rivista repubblicana «Archivio Trimestrale»; come succede abitualmente per questo genere di pubblicazioni il libro passò del tutto inosservato e rimase privo di diffusione. Quando espressi a Giorgio il mio rammarico al riguardo commentò, con un sorriso scanzonato e il suo vocione, che si sarebbe stupito del contrario. Egli visse ancora undici anni durante i quali tornò ripetute volte sulla guerra di Spagna nelle saltuarie collaborazioni che gli offrivano giornali più o meno effimeri e il suo Diario rimase in sonno, nelle librerie dei pochi che avevano la fortuna di possederlo.
Cinque anni fa parlando di Braccialarghe con l'amico Fausto Bucci di Follonica - dizionario vivente degli antifascisti e di buona parte dello scibile - mi domandò se avevo letto il suo racconto Terra di nessuno, ambientato nella Spagna della guerra civile; cascai dalle nuvole e nelle fotocopie che egli mi mandò scoprii che - nello stesso libro - al racconto faceva seguito un testo autobiografico intitolato Diario spagnolo; il volume era stato pubblicato a Córdoba, Argentina, nel 1960. Fui sorpreso; Giorgio mi aveva fatto dono di altri suoi scritti editi e inediti: perché mi aveva taciuto che esisteva quella versione del Diario?
L'interesse del confronto tra le due edizioni separate temporalmente da oltre un ventennio e che per brevità chiamerò Diario 1960 e Diario 1982, è oggi arricchito da un testo inedito di memorie di Giorgio Braccialarghe - ultimato pochi mesi prima della morte - dal titolo Ricordi dell'altro ieri, che io ignoravo e che il fratello Paolo ha messo con generosità a mia disposizione, nel quale l'autore affida al suo alter ego Giano (nome emblematico!) la narrazione in terza persona del proprio bilancio esistenziale, tornando con disincanto per l'ultima volta alla fondamentale vicenda spagnola. Malgrado la diversità di impaginazione e di corpo dei caratteri di stampa balza all'occhio la maggiore ampiezza dell'edizione più recente; il Diario 1960, che una breve avvertenza dell'autore vuole "scritto durante la guerra di Spagna" è letterariamente meno articolato del Diario 1982, ma l'essenza dei fatti resta inalterata in entrambe le versioni. L'ampliamento evidenzia l'intento dell'autore di arricchire il testo includendo le riflessioni che l'evocazione delle vicende di cui tratta (e la lettura di testi sulla materia) gli suggerisce: il Cid, Cervantes, Filippo il Bello, Giovanna la Pazza, Federico García Lorca…sono figure ricorrenti del Diario. Spesso si nota il desiderio - ritornando sui fatti del passato - di spiegare se non giustificare l'immediatezza di certe decisioni; è come se - a seguito di queste riflessioni ossessive - egli avesse il timore di dire troppo poco per descrivere l'importanza che per lui ha rappresentato la "sua" guerra, malgrado dichiari di non essersi mai sentito un eroe. Il racconto del quotidiano, degli stati d'animo e le divagazioni letterarie si susseguono ininterrottamente: "non so abituarmi a questa vita assurda che mi costringe a rinunciare al mio mondo spirituale, rendendo sempre più rari i momenti di evasione in cui posso restare a tu per tu con me stesso"; "venendo in Spagna, non ho posto, né chiesto condizioni di sorta. è un impegno che ho assunto soltanto con la mia coscienza e che intendo rispettare fino in fondo, sempre che continuino a sussistere le condizioni politiche per le quali ho ritenuto e ritengo doveroso battermi"; "con i due intellettuali spagnoli passiamo la notte parlando di letteratura castigliana nella proiezione sudamericana. Dai grandi narratori ai grandi poeti che potrebbero costituire gloria e vanto di ogni scuola europea.[…] La notte scivola via per incanto e i primi barlumi dell'alba ci sorprendono mentre passo, senza soluzione di continuità, dalle trionfali giornate argentine di Federico García Lorca agli ordini ai battaglioni di abbandonare le trincee". L'orgoglio di combattere per la libertà del popolo spagnolo non gli impedisce di rifiutare il deterioramento della situazione politica repubblicana: "Me ne vado perché mettere fuori legge il POUM non significa punire uomini che possono anche essere in errore, ma portare alla giustizia e alla libertà offese insanabili che, a più lungo o a più corto termine, daranno vita alla verità ufficiale. Cioè: ad un fascismo antifascista o ad un antifascismo fascista. Me ne vado perché proverei orrore di me stesso se collaborassi ad obbligare un solo spagnolo a lottare, contro la sua volontà, a favore dell'antifranchismo o, molto peggio, se acconsentissi, sia pure tacitamente, alla fucilazione di qualcuno di questi giovani che ci hanno consegnato perché noi mettessimo un'arma nella loro mano, a compenso di una educazione che nessuno seppe dargli". Entrambe le edizioni del Diario si concludono con le medesime parole: "Penso agli amici caduti e a quelli che rimangono. Penso a questo popolo che si dissangua, giorno per giorno, ora per ora, morendo di non morire perché crede fermamente che non v'è resurrezione senza morte [corsivo mio per sottolineare un imperativo che troveremo ancora]. Ricordo le parole di Pacciardi dopo Guadalajara: «Stiamo compiendo una cosa grande, qui!» e mi dico che , forse, la tragedia della umanità consiste nella presunzione di esseri troppo piccoli che vogliono fare cose troppo grandi".
Vent'anni dopo il Giano dei Ricordi dell'altro ieri parla della sua guerra di Spagna al figlio Senior mettendo ben in chiaro che "nei fatti bellici lui, come tutti i combattenti, è stato oggetto e non soggetto", e dichiarando - forse con esagerazione - che dal suo arrivo a Barcellona si era accorto che la vittoria sarebbe stata irraggiungibile. Più tardi "diventato il numero due della formazione italiana «Garibaldi», Giano non aveva avuto difficoltà ad inquadrare le abiette manovre dei vari Luigi Longo (alias Gallo), Felice Platone, Ilio Barontini in una cornice, predisposta, per mettere le mani sull'unico battaglione delle Brigate internazionali politicamente indipendente"; la conferma gli sarebbe giunta a distanza di anni da Giuliano Pajetta, commissario politico in Spagna: «Era giocoforza eliminarvi. Ci stavate sottraendo i compagni migliori». Non è benevolo Giano nei confronti dei comunisti, ai quali rinfaccia una ottusità congenita prodotta da una ideologia aberrante, ed essi lo ricambiano con eguale ostilità al Vernet, al confino di Ventotene e nella politica del secondo dopoguerra, ma il tempo dona alle cose la giusta prospettiva anche al panorama di Giano, che nel concludere i suoi Ricordi: "Si sentiva un fuscello, travolto dalla tormenta e non comprendeva l'atteggiamento di spensierata indifferenza dei suoi simili, ma non si abbandonava ad inutili condanne. Arrivato all'occaso, evitava di domandarsi se e dove la nuova generazione stesse scappucciando e se e dove lui avesse sbagliato. Per timore di dover ammettere: nel venire al mondo".
Il racconto Terra di nessuno è una delicata storia d'amore tra Soledad e Marco che si svolge, appunto, nella terra di nessuno in un imprecisato villaggio della Spagna dopo la battaglia di Guadalajara. Soledad, ragazza nubile di una famiglia contadina, è incinta del compaesano Giulio combattente nell'esercito della Repubblica con grande scandalo della famiglia che l'ha relegata a vivere nel fienile, condizione che le salva la vita quando i marocchini occupano il villaggio - per poi abbandonarlo - sterminando tutti gli abitanti, incluso il parroco "spretato" dai compaesani, "un pusillanime assetato di eroismo, un debole ammalato di nostalgia di potenza". Marco è il portaordini di una batteria legionaria che vorrebbe "non essere mai venuto in questo sporco paese" e che ha scelto "l'unica soluzione per poter mangiare e saziare la fame. Non c'era più lavoro, al paese; la famiglia era numerosa e il babbo non ce la faceva più": aveva chiesto l'Abissinia e gli avevano offerto la Spagna. Durante una missione notturna a causa del maltempo Marco smarrisce la strada e si trova coinvolto in uno scontro a fuoco nei pressi del villaggio di Soledad rimanendo ferito. Il giorno dopo, mentre la fanciulla si reca in un non meglio identificato magazzino per gli attrezzi di proprietà della sua famiglia, in cui si è rifugiata dopo la strage, sente i gemiti del giovane e lo soccorre salvandogli la vita. I due vivono insieme - forse un po' troppo agiatamente per un villaggio razziato dai marocchini, ma occorre ricordare che questa terra di nessuno è la metafora di una Spagna in pace circondata dalla guerra civile, - finché Soledad assistita da Marco non dà alla luce il bambino, che il legionario - ormai disertore che "ha deciso di rimanere nascosto, di non uccidere più e di farsi uccidere, sì, ma per difendere la volontà di non fare più la guerra" - accudisce amorevolmente. A poco a poco i due si innamorano sforzandosi, mentendo, di nascondere a se stessi il loro sentimento, finché un giorno ritorna al villaggio Bastiano, vecchio amico di Soledad, - "un tipo bizzarro che aveva un cuore di bimbo e sognava e cantava sempre. Suonava la chitarra come un autentico gitano e raccontava storie da far sudare e gelare nello stesso tempo", - che precede una pattuglia di soldati repubblicani in avanscoperta, non casuale visto che del gruppo fa parte anche Giulio. Informata da Bastiano della presenza del padre di suo figlio, la giovane lo raggiunge con il bambino all'insaputa di Marco, il quale - pronto a tutto pur di non perdere la sua famiglia - affronta il rischio di essere fatto prigioniero dai repubblicani e la rincorre. Superata l'emozione della vista del figlio e di Soledad, consapevole che la ragazza ama anche Marco e che per la Repubblica non c'è futuro, impone al legionario di passare le linee: "Ai suoi può raccontare che la ferita gli ha impedito di rientrare prima e l'aiuto avuto da Soledad". Per maggiore sicurezza la pattuglia li scorta lasciando al villaggio Giulio in compagnia di Bastiano; nella tristezza del momento danno sfogo ai sentimenti: "Era un conforto - mormora Bastiano - sapere Soledad vicina, vederla, sentirla parlare. Ora invece…". Giulio lo guarda sorpreso e gli domanda: "Anche tu l'amavi?" Bastiano tace e si stringe nelle spalle. è la conclusione di un racconto letterariamente modesto, ma che regge bene il confronto con i pochissimi testi analoghi pubblicati dai garibaldini di Spagna; curiosa è la presenza di un bolognese, commilitone di Marco, il quale afferma che il più stupido dei suoi concittadini è Guglielmo Marconi; la stessa battuta si trova nel Diario 1982 attribuita all'avvocato Francesco Blesio, un'altra bella figura di combattente antifascista caduta nell'oblio. Al di là del suo valore il racconto costituisce il solo esempio di narrativa espressa da un garibaldino che racconta le vicenda di un legionario mussoliniano.
La poche poesie di guerra di Giorgio Braccialarghe che ho potuto rintracciare evidenziano l'empito dei sentimenti dell'autore e sembrano relegare i fatti ad una preziosa cornice. Nell'autunno del 1937 lo scrittore tedesco Gustav Regler cura per il Comisariado de las Brigadas internacionales un volumetto di poesie di combattenti intitolato Romancero de los Voluntarios de la Libertad. Braccialarghe, che nella sua prefazione Regler definisce "l'anarchico italiano, orgoglioso come un romano," che ricorda a tutti i commilitoni: "Voi moriste o compagni; ma la morte v'illuminò la vita", è il solo collaboratore italiano e lo fa con quattro composizioni in versi: Terra di Spagna, Notti di Spagna, Ai fratelli lontani e Fratelli dell'Internazionale; Terra di Spagna si chiude con il verso: "Non v'è resurrezione senza morte", parole che abbiamo letto anche al termine del Diario. Notti di Spagna era già apparsa su «Noi passeremo», il primo giornale del Battaglione Garibaldi che fu sostituito da «Il Garibaldino», pubblicato fino all'inizio del febbraio 1938. Non escludo possano esistere altre composizioni di Braccialarghe su questi giornali perché non ho fatto lo spoglio. Nello stesso periodo vide la luce il lussuoso volume Garibaldini in Ispagna, curato da Teresa Noce e dalla redazione del «Garibaldino», che riproponeva le stesse poesie con l'aggiunta di un brano in prosa intitolato Il Moro. è il commosso ricordo di un commilitone marocchino caduto in combattimento, fotografato nel libro mentre si accinge a ricaricare il suo mitragliatore, e il testo viene ripreso quasi alla lettera in entrambe le edizioni del Diario. Senza dubbio è casuale e non accresce il valore dei componimenti, ma Terra di Spagna è stata scelta dai curatori per concludere Garibaldini in Ispagna.
Nel 1986 ricorreva il cinquantesimo anniversario dello scoppio della guerra civile spagnola e Braccialarghe pubblicò sul pacciardiano «L'Italia del popolo» la poesia Cinquantenario in diciannove versi sciolti; l'ultimo recita il memento: "non v'è resurrezione senza morte!". Poche poesie, come abbiamo visto, ma la cui valenza non aveva per l'autore scadenza temporale. Mi sono riletto La passione di Madrid, poemetto inedito di 236 versi sciolti dedicato a Pietro Nenni e ho appurato che contiene Notti di Spagna e Cinquantenario; sicuramente è stato scritto prima del 1986, ma per Braccialarghe seguitava ad essere fonte di emozioni che trascendono il tempo.
Queste brevi note sono dedicate al Giorgio Braccialarghe della guerra di Spagna, ma ambiscono a stimolare l'approfondimento tardivo della conoscenza del Braccialarghe scrittore; oltre al reperimento delle centinaia di articoli dispersi occorrerebbe rintracciare i testi teatrali che egli pubblicò in Argentina e di cui forse in Italia non vi è copia. Se ho destato interesse a questo riguardo mi considererò più che soddisfatto.
Luigi Paselli